Esperto di Calcio

1 novembre 2013

Storie di calcio: l'Italia di Baggio e quella maledetta finale a Pasadena

“Esterno di centrocampo non gioco”. Il grande rifiuto di Giuseppe Signori rappresenta un caso unico nella storia del calcio. Quale giocatore rifiuterebbe di giocare titolare una finale del Mondiale? Probabilmente nessuno. Penso che questa sia una scelta da uomo. Certo, ha dato adito a rimpianti, come ammesso dallo stesso attaccante, ma è stata fatta con il cuore. Signori è stato uno straordinario centravanti. Mancino naturale, è stato capace di vincere per tre volte il titolo di capocannoniere in Serie A. Eppure, con la maglia della Nazionale, non ha mai fatto amicizia.
Dal pomeriggio americano emergono poche ma granitiche certezze. Il Brasile ha vinto; i rigori ci sono fatali, di nuovo; Beppe Signori non scende in campo nemmeno per un istante, nonostante un Baggio sfinito ed un Massaro non all’altezza di una finale Mondiale. D’altronde rifiutare la maglia da titolare ha delle conseguenze e, forse, è anche giusto così.

Ci sono ricordi indelebili nella nostra memoria. La finale di un campionato del mondo, quando gioca la tua nazione, è uno di questi. L’aria non è quella di tutti i giorni, aleggia una tensione del tutto particolare, unica. Lo stesso aggettivo che si potrebbe usare per descrivere una partita per nulla spettacolare, povera di giocate ed emozioni.
Giocare a metà Luglio, in California, alle 12:30 una partita di quel livello è francamente grottesco. E’ giusto andare incontro alle esigenze televisive, ma, inevitabilmente, è lo spettacolo a risentirne. E dire che le due squadre non erano poi così male. Sacchi, dopo il rifiuto di Signori, sceglie uno schieramento accorto. Roberto Baggio unica punta, supportato da Massaro e Donadoni ai lati, in un inedito scacchiere tattico per la sua Italia. Parreira schiera a sua volta un inedito Brasile, con tanti giocatori di quantità. Branco, Dunga e Mauro Silva, tutti insieme, sono un centrocampo decisamente inedito per una nazione come quella carioca, che fa della fantasia e delle giocate di classe il suo marchio di fabbrica. Queste sono comunque garantite da un attacco superlativo, con Bebeto e la punta di diamante Romario.
Proprio Romario è l’unico a regalare un’emozione al pubblico statunitense ed un brivido a Pagliuca. La conclusione del brasiliano è di ordinaria amministrazione, il nostro portiere va poco convinto, se la fa sfuggire e la palla rotola verso la porta. I brasiliani sentono in gola un urlo crescere a dismisura; gli italiani provano un brivido lungo la schiena. Quando la palla colpisce il palo e Pagliuca la recupera si spegne ogni emozione sullo stadio di Pasadena. Il caldo e le difese la fanno da padrone, nonostante in campo ci siano qualcosa come sette titoli mondiali.

L’Italia di Sacchi è diametralmente opposta al suo Milan. Se i rossoneri imponevano il proprio gioco, attaccavano e segnavano a raffica, gli azzurri dello stesso allenatore non hanno gli stessi pregi. Con in rosa l’intero blocco Milan, il commissario tecnico lascia perennemente in panchina il talento di Zola e il dinamismo di Antonio Conte.
Anche i verdeoro giocano un calcio irriconoscibile, così lontano dalla filosofia del futbol bailado che solo la tradizionale maglia gialla ed i colpi dei fuoriclasse in avanti ricordano al mondo che si tratta del Brasile. Con due calciatori come Cafu (poi subentrato in finale) e Leonardo a scaldare la panchina, il commissario tecnico vara una squadra di rara sostanza. Si è detto di Dunga, reduce da un campionato in chiaroscuro con il Pescara, ma anche del genoano Branco e del modesto Mauro Silva. La retroguardia è lontana anni luce da quella del Brasile campione del mondo 1970, con due marcatori duri come il granito, al secolo Aldair e Marcio Santos, ed un jolly a tutto campo che risponde al nome di Mazinho. Insomma, una seleçao più italiana che carioca.
Ha vinto il Brasile, ai rigori, e chi vince ha sempre ragione. L'Italia perde con dignità una finale brutta e noiosa, condizionata dalla reciproca voglia di non prendere gol e da un caldo spaventoso. Quanto bene ha fatto una finale del genere al mondo del calcio? Penso poco o nulla, ma nel calcio moderno a volte si ragiona più con il conto in banca che nell’interesse dello sport. Brasile-Italia doveva essere la partita del secolo, la grande rivincita. Dopo il 4-1 che i verdeoro ci avevano rifilato nel mondiale in Messico, con tanto di staffetta mancata fra Mazzola e Rivera, doveva essere una partita emozionante. L’èlite del calcio mondiale si è sciolta in una serie continua di “vorrei ma non posso”, di errori clamorosi dovuti all’annebbiamento di una fatica disumana.

Nei piani di Sacchi doveva essere l'Italia dei miracolati, arrivata in finale dopo alcuni miracoli. Subito in campo Baresi, ventiquattro giorni dall' intervento al menisco, titolare anche Roberto Baggio, nonostante fosse chiaro che non era lo stesso fantastico numero 10 del resto del torneo. Dopo un cambio obbligato nei 90 minuti, ecco l’ingresso a inizio supplementare di Alberigo Evani, un mediano tutto sostanza per portare la partita ai rigori.
Impresa riuscita, ma non fino in fondo. Dopo essere stati eliminati dall’Argentina di Maradona nelle semifinali di Italia ’90, i tiri dagli undici metri sono nuovamente fatali agli azzurri. Baresi, capitano e simbolo del Sacchi pensiero calcia alle stelle. Massaro, un altro fedelissimo del c.t. calcia debolmente addosso a Taffarel. Infine Roberto Baggio, che calcia un rigore non da lui, frutto di tensione, stanchezza e totale mancanza di lucidità.
Una sconfitta in una finale Mondiale brucia. Perdere così è ancor più doloroso, specie se si pensa che non eravamo di fronte al Brasile di Pelè, Carlos Alberto, Jairzinho e Rivelino. Già, un Brasile mediocre rispetto ai suoi standard, che nel complesso ha meritato più di noi la coppa più bella e pesante del mondo. Sarebbe ingiusto non riconoscere la pochezza tecnica del Brasile, ma ancor più inammissibile non sottolinearne i meriti per una vittoria giusta.

L’Italia non era probabilmente la squadra che aveva in mente Sacchi. Capace di esaltare solo nella prima mezz’ora del match con la Bulgaria, la nostra Nazionale ha palesato limiti di gioco, preparazione atletica e intensità. Ha sopperito alle mancanze aggrappandosi a Roberto Baggio, a Dino Baggio e a Pagliuca; ha saputo lottare e portare a casa partite poco meritate, grazie allo straordinario talento difensivo di Paolo Maldini. Troppo poco per vincere un Mondiale, evidentemente non era la nostra ora.
Il Brasile, paralizzato a lungo dalla paura di vincere dopo ventiquattro anni di digiuno, ha saputo portare a casa il risultato. Difficile giustificare le continue critiche a Parreira, capace di riportare i carioca in cima al mondo. Eppure in Brasile va così, se non giochi bene, non diverti sei fischiato. Ma il Brasile meno brasiliano della storia ha vinto, ha portato a Brasilia un gruppo di campioni e ha saputo strappare un sorriso ad un popolo ancora in lutto per la morte di Ayrton Senna.
Giusto così, tutto sommato. Vincere in questo modo non sarebbe stato da Italia.

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