Esperto di Calcio

15 marzo 2014

Storie di calcio: Marco Di Vaio, la leggenda felsinea

"Mi vengono i brividi se ci penso, abbiamo iniziato insieme alla Lazio da giovanissimi e ora abbiamo trascorso un anno e mezzo insieme in Canada. Siamo stati insieme praticamente tutti i giorni, anche perchè per un periodo la sua famiglia non c'è stata. Sandro ha avuto la bravura e la fortuna di essere stato capitano della squadra che amiamo fin da bambini. Il settore giovanile e gli inizi con la Lazio sono stati il periodo più bello della nostra vita. E' qualcosa che ci lega tantissimo e che non ci toglierà mai nessuno. Ricordo con affetto gli insegnamenti di Mimmo Caso, fece capire a me e a Sandro cosa volesse dire essere un professionista. E' stato per noi giovani un maestro e un padre".

Un amore vero quello di Marco Di Vaio; un amore non corrisposto. La favola del centravanti romano, cresciuto nelle giovanili della squadra che ha sempre amato, s'interrompe bruscamente e fatalmente in un pomeriggio novembrino. Dopo l'esordio con Zoff e i primi goal sotto la guida di Zeman, Marco Di Vaio viene ceduto in prestito, al Verona.



"C'erano grandi attaccanti, da Signori a Rambaudi a Boksic. Io ero il sesto attaccante a quell'epoca, avevamo una sola competizione e capii che per me non c'era spazio. Sono andato prima a Verona e poi a Bari, ho avuto problemi fisici e ho attraversato un periodo difficile. Dovevo capire cosa volevo fare da grande, e dovevo capirlo da solo. Poi ci fu la possibilità della Salernitana, nel 1997 mi pagarono 5 miliardi ma non avevo ancora fatto nulla, a scatola chiusa. Lì sono rinato, riuscii finalmente a dimostrare qualcosa e lo stesso accadde al Parma".



La prima tappa si chiama Salerno, una città calda e assetata di calcio, di grande calcio. Di Vaio è il fiore all'occhiello della campagna acquisto granata; il gioiello che deve portare la Salernitana nel calcio che conta. Detto, fatto. Di Vaio trascina i suoi con giocate d'alta scuola e reti pesanti, fino a guadagnarsi il titolo di principe dei cannonieri, con 21 reti.
E così, nel 1998, la grande ribalta della massima serie, finalmente. Di Vaio non tradisce le attese, corre e lotta su ogni pallone. Con 12 reti va in doppia cifra, ma non riesce a salvare i campani da un'amara retrocessione in cadetteria. E' chiaro a tutti, però, che il ragazzo romano non può giocare in Serie B, il suo palcoscenico è la massima serie.
La grande occasione si chiama Parma, dove ha l'occasione di giocare accanto a due campioni veri: Marcio Amoroso ed Hernan Crespo, non so se mi spiego. 13 reti fra campionato e coppa, sufficienti per convincere i ducali a puntare su di lui come titolare, stante la cessione di Valdanito alla Lazio, proprio la squadra che da sempre è nel cuore di Di Vaio.
42 reti nelle due successive stagioni convincono la Juventus di Lippi ad acquistarlo e portarlo a Torino, dove si gioca un posto con Alessandro Del Piero e David Trezeguet.
"I due anni alla Juve hanno cambiato completamente il mio modo di ragionare. La professionalità di quell'ambiente è impressionante. Arrivare mezz'ora prima dell'allenamento e trovare giocatori già in campo, vedere che dopo la fine accade lo stesso...i livelli di impegno e concentrazione erano incredibili".



Le prestazioni di Marco sono buone, eccome. Davanti ha però due mostri sacri, ed ecco la decisione: addio alla Juventus. "Ci fu questa possibilità, in estate dopo le vacanze mi chiamarono dicendomi di avere bisogno di me. Alla Juve non giocavo tanto, avevo davanti un certo Alex Del Piero, e decisi di accettare. Dopo due stagioni il trasferimento al Monaco, ma quello è un mio grande rimpianto perchè in quel tipo di calcio non ci sono emozioni".
Valencia e Monaco sono parentesi agrodolci per Di Vaio, che sente la saudade dell'Italia. Pur di tornarci accetta di scendere in B, giocando per il Genoa. Con il Grifone gioca esterno d'attacco nel tridente di Gasperini, mettendo la sua esperienza al servizio della squadra. Ma non è quello il rossoblu che dona a Di Vaio, quello che lo farà entrare nella leggenda. Decisivo per il suo cammino è il passaggio in Emilia, al Bologna. Qui rinverdisce i fasti di due illustri predecessori: Roberto Baggio e Giuseppe Signori, storici volti del calcio italiano e grandi protagonisti con i felsinei.
Di Vaio trova a Bologna la sua vera dimensione, diventando in breve tempo il simbolo della squadra. "Il primo anno ho fatto 24 gol, giocavo come unica punta. In quegli anni sono passati tanti buoni giocatori, da Ramirez a Diamanti a Viviano. La società però scricchiolava, sono cambiati tanti presidenti. I personaggi come Morandi ci hanno aiutato tanto, anche a coinvolgere la gente. Ho vissuto un'esperienza bellissima e sono ancora tanto legato al Bologna".



Nel giro di poco tempo diventa un idolo, a suon di goal. Quattro anni, tutti in doppia cifra, fino al commovente saluto alla città, ai compagni. Un tunnel di applausi per un simbolo vero.



Veloce, letale, tenace. Marco Di Vaio è stato un attaccante formidabile, che ha raccolto di sicuro meno di quanto seminato. Per l'attaccamento che ha avuto nei confronti della Lazio, avrebbe meritato di vestire i colori biancocelesti, magari con la fascia di capitano.
"C'è stato un momento in cui sarei potuto tornare alla Lazio, dopo la fine del prestito al Monaco. Parlai con il presidente Lotito per due settimane, per me sarebbe stato il massimo tornare a casa. Mi misero in contatto prima con Sabatini e poi con Lotito, mai prima di mezzanotte al telefono (ride, ndr). Abbiamo parlato per due settimane consecutive, ma c'era l'ostacolo dell'ingaggio. Sarei arrivato a parametro zero, chiesi almeno di guadagnare quanto prendevo al Valencia, anche in più anni, ma non se ne fece nulla, la differenza tra domanda e offerta era troppo grande. Ringrazio comunque Lotito e Sabatini, per tre settimane ho sognato di tornare a casa".

Amante del calcio e dei grandi campioni, Di Vaio ha una collezione che tutti gli amanti del calcio invidierebbero. Grande Marco.





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